12.12.06
Intorno all’identità 1-2
Ricerca d’identità e relazione con l’altro
Presentazione delle prime due lezioni del seminario di Marisa Fiumanò
Identità non è un concetto propriamente psicanalitico, mentre lo é identificazione. Per identificazione intendiamo un processo interno alla storia di un soggetto, che si ripropone nel suo percorso analitico, che é legato alla sua costellazione affettiva infantile e funziona come guida all’esplorazione del suo desiderio. Altra cosa è invece l’identità, o meglio la ricerca d’identità, un fenomeno attuale di ampia portata sociologica e politica che appare legato proprio ad una maggiore difficoltà di risoluzione del processo di identificazione soggettiva. Il motivo per cui propongo di esplorare i due concetti insieme sta nel fatto che l’identificazione, un processo immaginario, è articolato ad una funzione simbolica centrale che Lacan ha chiamato Nome del Padre. Il declino di questa funzione nella nostra modernità rende più precari i processi di identificazione e inasprisce la ricerca di identità, cioè di referenze simboliche che diano consistenza a dei soggetti sempre più smarriti e in cerca di un luogo in cui riconoscersi. Siamo di fronte ad una mutazione antropologica? Nel nostro Occidente, percorso ormai da consistenti flussi migratori, questa ricerca di identità si presenta come rivendicazione di appartenenze religiose, culturali, etniche, in una parola simboliche, rivaleggianti fra loro. Quale ricaduta questo produce nella nostra clinica? .Che può dirne la psicanalisi?
È possibile scaricare questo documento in formato pdf da qui.
Questo è un aspetto della questione dell’identità, ma non il solo. Quando Freud ad esempio, scrive
(1921) si pone il problema del rapporto tra l’identificazione del soggetto al capo in quanto ideale dell’Io e il funzionamento sociale delle grandi masse organizzate: lo Stato, la Chiesa e l’esercito. Vi ricordo che questo scritto appartiene all’epoca feconda della costruzione della seconda topica, vale a dire che viene pubblicato solo un anno dopo
Al di là del principio di piacere. Questa vicinanza temporale dei due scritti è importante: la pulsione di morte e il problema dell’identificazione fanno parte della stessa fase di elaborazione. Ora non ci occupiamo di questo ma voglio attirare la vostra attenzione sul fatto che già nel titolo
Psicologia delle masse e analisi dell’io si pone la corrispondenza tra il soggetto e il sociale. Questa relazione è anche al cuore delle giornate di Grenoble.
LE COMPONENTI DELL’IDENTITÀ
In un’epoca solo un po’ meno tormentata della nostra, parlo di circa quindici anni fa, nel 1990, Charles Melman ha pronunciato una conferenza (Les quatres composantes de l’identité, scaricabile dal sito dell’ALI, www.freud-lacan.com) che costituisce una referenza fondamentale sul tema dell’identità di cui stabilisce le componenti, quattro.
Si parte dalla clinica, che sola ci permette di fare affermazioni di carattere generale senza che siano accolte come arbitrarie, o filosofiche o dogmatiche o ideologiche.
La nostra riserva aurea, il nostro punto di partenza è la clinica e il modo di leggerla che abbiamo avuto in eredità da Freud e Lacan.
All’interno della teoria analitica parliamo di identificazione piuttosto che di identità nel senso che l’identificazione è un processo per cui, all’interno della storia di un soggetto, intendo dire della sua storia clinica, appaiono più identificazioni, identificazioni immaginarie con questo o quel personaggio della sua costellazione affettiva infantile.
Esemplare è in questo senso il caso di Dora, un caso di identificazione isterica. Dora comincia a tossire perché imita la tosse del padre; vale a dire si identifica al padre attraverso un tratto, quello della tosse.
Questa identificazione funziona come la tappa di una ricerca, di un’indagine sul proprio desiderio che passa attraverso l’indagine sull’oggetto del desiderio del padre. Dora si interroga su quello che Hiltenbrand ha chiamato “l’oggetto femminile” assumendo il punto di vista di un uomo, via identificazione.
La ricerca dell’identità, sempre in fieri, conferisce alle isteriche (e agli isterici) una certa plasticità, una flessibilità, un adattamento da camaleonte alle diverse situazioni o gruppi di persone. Come se avvenissero dei veri e propri cambiamenti di personalità secondo la particolarità dell’incontro col proprio simile.
Una specie di adattamento a ciò che si suppone più conveniente alla situazione contingente. Si tratta di maneggiare un’immagine, di rappresentare qualcosa.
Nella nostra cultura la questione dell’identità immaginaria è centrale; sappiamo che quella dei costruttori di immagine è un vero e proprio mestiere, sappiamo quanto l’immagine sia considerata importante non solo nello spettacolo ma anche in politica. Naturalmente il prezzo di questa centralità dell’identità immaginaria è che siamo costretti, se decidiamo di uniformarci, ad essere mimetici, ad assumere il colore (anche politico) che conviene al momento. Il colore dell’ambiente, proprio come fanno i camaleonti per dissimulare la loro presenza o per integrarla ai colori della natura in cui vivono.
Per fortuna l’identità immaginaria non è la sola ad avere peso perché altrimenti saremmo tutti esposti alla suggestione, a delle variabili continue. Invece, oltre che all’immagine, noi ci appoggiamo alla nostra storia personale, ai valori culturali della nostra civiltà, alla famiglia a cui apparteniamo, al nome che portiamo e alla nostra identità sessuale.
Tutti questi elementi costituiscono la nostra identità simbolica, ci assicurano una certa permanenza, una certa stabilità.
È importante che queste due componenti dell’identità, quella immaginaria e quella simbolica, siano armoniche , che si integrino fra di loro. Che, ad esempio, l’immagine che ho di me o che fornisco di me, si accordi con le altre dimensioni che si riferiscono all’identità simbolica.
Naturalmente si tratta di un’armonizzazione difficile in tempi come i nostri, in cui da un lato le referenze simboliche della nostra cultura sono fragilizzate e, dall’altro, c’è immistione di culture e di religioni diverse dovute a fenomeni migratori.
Queste due caratteristiche della nostra epoca, declino degli assi portanti della nostra civiltà e presenza di culture diverse, rende difficile l’accordo fra queste due componenti dell’identità e provoca la forma specifica del moderno “malessere” non solo sociale ma anche individuale.
Nell’articolo che ho citato, Melman fa una notazione clinica che mi sembra importante e che serve anche a richiamare il fatto che quello che avanziamo come psicanalisti non viene dalla speculazione ma dalla clinica.
La notazione riguarda le amnesie d’identità. Casi di persone che perdono la memoria e non sono in grado di ricordarsi né il nome né il paese d’origine, né insomma tutte quelle componenti che rinviano alla loro identità simbolica, mentre ad esempio a livello dell’identità immaginaria le cose possono funzionare: queste persone possono avere un buon rapporto con gli altri, fare una vita normale. Eppure, cosa strana, hanno fatto in modo che non ci sia più traccia di ciò che potrebbe renderli identificabili: carta d’identità, biglietti di mezzi di trasporto, etichette di ogni genere, insomma tutto ciò che permetterebbe di identificarli è misteriosamente sparito.
Stessa cosa avviene nelle schizofrenie anche se in questo caso si tocca anche la componente immaginaria dell’identità, ad esempio la tenuta del corpo, la postura. Con i nuovi neurolettici questo non è più così visibile.
Tempo fa, nell’ istituto di psichiatria dove lavoravo, mi era capitato di ricevere un giovane uomo che la madre aveva voluto che incontrassi perché non si rassegnava ala diagnosi di schizofrenia “cronica” che era stata fatta per lui. E quando, ad un certo punto del colloquio, lei si era lamentata dell’isolamento del figlio, che evidentemente non riusciva a lavorare, che stava sempre, o quasi, in casa ecc., lui le si era rivolto per ricordarle seccamente non solo la diagnosi che lo riguardava ma anche che si trattava di schizofrenia “cronica”, aggettivo su cui aveva calcato la voce e a cui sembrava tenere molto. Possiamo pensare che costituisse per lui un appiglio irrinunciabile, un significante certo sotto cui collocarsi anche se non era in grado di interrogarlo.
La terza componente dell’identità, dopo quella immaginaria e simbolica che, abbiamo detto, richiedono un certo accordo tra loro, una certa integrazione oggi difficile e compromessa, è alla portata dell’esperienza di tutti.
Riguarda l’irruzione sulla scena di qualcosa che non sappiamo di noi stessi, e che pure talvolta riesce a farsi valere, qualcosa dell’ordine del reale e del desiderio. Quando facciamo un lapsus, ad esempio, e diciamo qualcosa che non vorremmo dire ma che pure ci sfugge e rivela, agli altri e a noi stessi, qualcosa della nostra identità più nascosta, in ogni caso qualcosa che non vorremmo dire, o dire a noi stessi. Il lapsus verbale, in particolare, ci si propone come una specie di tradimento. Si dice, in questo caso, che “la lingua ci ha tradito” intendendo per lingua proprio quell’organo, reale, che si è messo a parlare da solo, senza che noi acconsentissimo all’articolazione di quel suono, di quei suoni che fanno un lapsus. Naturalmente è anche la lingua nel senso della lingua che parliamo che ci ha tradito perché, nel momento in cui facciamo il lapsus, non la padroneggiamo. Questo sentirci “traditi” da ciò che noi stessi diciamo dimostra che non c’è coincidenza tra l’identità immaginaria, cioè dell’io, e la nostra verità il cui indice è il desiderio e che ci si rivela in maniera estemporanea e frammentaria, rapsodica, nelle “formazioni dell’inconscio”. Il lapsus ne è l’esempio più comune ed evidente.
A queste tre componenti, immaginaria, simbolica e reale, dell’identità dobbiamo aggiungerne una quarta che, in un certo senso, le annoda e che è il sintomo.
Si tratta di una componente che si comporta diversamente dalle altre perché le prime tre sono, in modo diverso, condivise con altri: l’identità simbolica perché la sua condivisibilità è proprio ciò che fonda una comunità, una nazione, un popolo; l’identità immaginaria perché ha a che vedere col simile,con il mio prossimo; l’identità “reale”, quella che ha a che fare col desiderio e che noi cogliamo attraverso il fantasma, perché anche la struttura del fantasma, in una data cultura, non è originale. Pensiamo ad esempio a quel fantasma isolato da Freud come alla base dello scenario sessuale infantile: “un bambino viene picchiato” che lui ritrova regolarmente nel corso delle sue analisi anche se evidentemente incastonato in racconti diversi. Si tratta di un fantasma comune. Potremmo citarne altri, condivisi in maggiore o minore misura.
Il sintomo, invece, testimonia dell’assoluta singolarità con cui ciascuno di noi ha trovato una soluzione per tenere insieme le altre componenti. Il sintomo è qualcosa che ci accompagna, potremmo dire che è il nostro angelo custode, custode del desiderio, la nostra ombra. Noi e il sintomo siamo inseparabili, è la nostra invenzione, il nostro personalissimo modo di tenerci sia il desiderio che il godimento che vi si lega. Al tempo stesso il sintomo rimuove i desideri impedendogli di accedere alla coscienza. L’annodamento che ci permette quest’operazione ha una quantità di varianti infinite, ed è per questo che gli analisti rifiutano la classificazione per sintomi. Non considerano il DSM IV uno strumento utilizzabile, perché non ci sono sintomi codificabili, né tanto meno che rendano possibile una diagnosi. Possiamo darne una descrizione fenomenologica ma la fenomenologia del sintomo non corrisponde necessariamente ad una struttura. Possiamo trovare sintomi cosiddetti isterici in una psicosi, ad esempio, cosa che non la fa diventare un’isteria. E, in ogni caso, lo stesso sintomo in soggetti diversi rimanda a significazioni diverse.
Naturalmente qui diamo un’accezione particolare al sintomo, cioè lo apparentiamo al “tratto”, al tratto distintivo che appare nel meccanismo della ripetizione, per la precisione nella “coazione a ripetere” (vedi qui il legame con Al di là del principio di piacere). Coazione a ripetere lo scacco, che si rivela in particolare negli scacchi amorosi, negli scacchi di lavoro, talvolta più negli uni che negli altri ma che comunque costituisce una specie di tratto distintivo, di marchio che mi contraddistingue, non sempre in modo piacevole agli occhi di me stesso e a quelli altrui.
A volte sono sintomi che ingombrano la vita propria e quella del nostro entourage, che ci rendono prevedibili, che magari mettono gli altri in preallarme perché, per avervi assistito più volte, possono prevedere le nostre reazioni a tale o talaltra cosa.
La ripetitività di questo tratto è ciò che fa la pesantezza della vita comune, ciò che può renderla insopportabile.
E che cosa ripetiamo se non qualcosa che ha a che fare con un fantasma e con un fantasma originario, che si costituisce molto precocemente nel bambino che tutti continuiamo ad essere. Questo fantasma, attraverso il sintomo, comanda la nostra vita sentimentale e sociale e conferisce ad ognuno la sua singolarità.
Quanto più il sintomo è opaco per noi stessi, tanto più risultiamo ripetitivi, obbligati a compiere dei percorsi ciclici che, più lunghi o più brevi, si ripetono con le stesse caratteristiche e anche che arrivano agli stessi modi di fallimento. Quando la ripetitività opaca del sintomo non è tollerata più neanche dal suo portatore allora talvolta si domanda un’analisi. Potremmo dire quando il dispiacere supera la soglia del godimento, quando il dispiacere non è più qualcosa in cui ci si rifugia, in cui ci si crogiola, ma diventa un peso, quando diventiamo un peso per noi stessi, oltre che per gli altri. Talvolta questa soglia viene oltrepassata in relazione a quello che potremmo definire “l’indice di gradimento” che il nostro entourage ha per il nostro sintomo. Quando anche quelli che più ci amano non ci sopportano più e magari ce lo fanno capire, più o meno gentilmente, può accadere che noi stessi finiamo per non sopportarci e volerci vedere un po’ più chiaro.
Un’analisi può allentare la morsa della ripetizione, disincagliare il desiderio dalla morsa del sintomo ma non fornisce un altro desiderio, non consente un cambio d’identità. Non produce amnesie, come ad esempio possono in parte le droghe. Dico in parte perché possono produrre amnesie della componente simbolica e/o immaginaria dell’identità ma lasciano il soggetto esposto al reale, insopportabile perché così isolato, del suo desiderio. Le allucinazioni o i deliri sotto l’effetto di droghe sono questo: ci si trova faccia a faccia col reale.
Come tutto ciò che ho detto ha a che fare con la “ricerca d’identità e la relazione d’alterità” delle giornate di Novembre?
FENOMENI MIGRATORI E RICERCA D’IDENTITÀ
Quando affrontiamo la questione dell’identità oggi non possiamo prescindere dagli interrogativi che pone la presenza di culture multiple sullo stesso territorio e, soprattutto, la presenza nello stesso territorio di una cultura dominante e di un’altra che potremmo definire “ minoritaria”. Mi riferisco non solo alle difficoltà prodotte dal fenomeno migratorio, ai turbamenti che esso produce sul piano dell’identità simbolica, così come non mi riferisco solo al disagio di coloro che provengono da altri paesi ma anche a quello che si produce nel paese che riceve e che si chiama in genere “paese d’accoglienza” anche se il termine “ accoglienza” non corrisponde a quanto viene messo in atto. Dobbiamo perciò considerare il fenomeno sia dal lato dei migranti che da quello del paese ospitante. Questo disagio è dovuto al fatto che la presenza di persone portatrici di altri valori, di un’altra lingua, di un’altra religione, insomma di un’altra identità simbolica, turba gravemente la nostra identità e mette in crisi l’unicità dei nostri valori.
Anche l’appello all’unità rivolto alla comunità dei credenti da parte dei massimi esponenti delle tre grandi religioni ha effetti deboli perché il dio di Maometto non somiglia a quello di Gesù di Nazareth così come Allah non somiglia a Yahweh e che il fatto stesso di definirli “i tre monoteismi” per sottolineare la loro similarità potrebbe essere rimesso in causa.
Non si tratta di questioni che riguardano solo le religioni, la sociologia o la politica ma anche la nostra clinica perché ne verifichiamo gli effetti. La perdita d’identità simbolica ha delle conseguenze anche sulla componente immaginaria. Se ad esempio, non sono rassicurato sulla mia appartenenza simbolica ( che in Occidente è in crisi per motivi molteplici, e certo non solo a causa dei flussi migratori ) come posso accettare senza inquietudine che circolino immagini della femminilità diverse da quelle a cui la mia cultura mi ha abituato? Ad esempio che circolino delle donne velate in quanto il velo accentua un’alterità che, poiché si tratta di donne, è strutturale; il velo le rende ancora meno assimilabili e ancor più diverse; soprattutto costituisce un tratto che si propone come inassimilabile e rinvia ad un’altra identità sociale.
Naturalmente vale il reciproco, cioè lo svelamento del corpo femminile per i musulmani, e questo reciproco può causare anche la violenza sulle donne ( occidentali) da parte di chi vede nella loro emancipazione un attentato alla propria identità simbolica.
Quello che dico vale soprattutto per gli uomini perché per loro la questione dell’appartenenza simbolica si pone in modo più netto e imperativo. Le ragioni sono di struttura perché le donne, a causa della loro posizione, di appartenenza e al tempo stesso di alterità rispetto alla loro stessa cultura , tollerano meglio la possibilità di referenze simboliche multiple. A meno che non facciano proprie le posizioni maschili e allora il risultato potrà essere le donne kamikaze oppure i comportamenti perversi delle soldatesse americane in Irak.
Charles Melman definisce “fisiologica” la reazione di intolleranza della cultura del paese ospitante perché é legata al fatto che la messa in discussione della nostra appartenenza e della validità universale delle nostre referenze, ci turba e ci fa andare in crisi.
La ragione può venire in soccorso oppure ci si può votare alla causa dell’altro come avviene in quel fenomeno che le ricerche sociologiche definiscono in crescita che si chiama “volontariato”, ma a livello di fenomeno di massa la reazione di rigetto é fisiologica.
Vediamo ora la questione dall’altro lato, cioè come si pone per il giovane che emigra, e dico giovane perché i migranti in genere sono giovani, sono loro che osano rischiare una crisi d’identità in un altro paese.
C’è una difficoltà di base che riguarda soprattutto la prima e seconda generazione di migranti. Da un lato chi approda ad un paese di altra lingua, cultura e tradizione vuole essere riconosciuto, e riconosciuto come simile, come qualcuno che ha gli stessi diritti degli altri. Vuole da un lato far valere la sua individualità e dall’altro essere apprezzato in quanto portatore di una cultura, di una lingua, di una tradizione. Sperimenta invece che la referenza simbolica a cui appartiene non può fargli da appoggio perché il paese d’accoglienza la misconosce.
L’insopportabilità di questo misconoscimento la ritroviamo, tanto per citare un film recente, in “Nuovomondo”, il film di Emanuele Crialese che racconta una storia di migrazione degli inizi del Novecento dalla Sicilia agli Stati Uniti. La madre del protagonista, un po’ psicanalista, un po’ fattucchiera– ma lei si definisce “medica”- a Petraia dove cura isterie e possessioni, una volta sbarcata nell’altro continente si rifiuta di accettarne le regole, rivendica le sue radici, la sua dignità, cioè la sua identità, in siciliano e infine decide di tornarsene a casa. Chi resta deve accettare le regole del Nuovomondo.
Charles Melman definisce lo stato della cultura “ migrante” uno stato di “minorità” e perciò una cultura piuttosto “minorata” che minoritaria, una cultura svilita, deprezzata.
In Italia il fenomeno è comprensibilissimo: solo di recente il Nord del paese non produce più, se non in maniera residuale come nel caso del sollecitato “orgoglio padano”, fenomeni di rigetto per chi proviene dal nostro Sud. L’Italia é uno stato-nazione di formazione recente ma ancora più recente è la sua unità linguistica. L’italiano è diventato lingua nazionale con l’avvento della televisione, dunque negli ultimi sessant’anni. I migranti di 50 anni fa lo parlavano solo per comunicare con “l’esterno”, come se si trattasse di un canale di comunicazione ufficiale. L’italiano non era per loro la lingua madre ma la lingua del padrone proprio nel senso che Lacan dà alla parola “padrone” quando parla di “discorso” del padrone. Si trattava per loro di farsi riconoscere in quella lingua, di trovarvi posto, di esservi assimilati.
La lingua veicola, attraverso le parole, i valori di una cultura. Così se in una lingua c’è una parola che designa i nuovi venuti in una cultura d’adozione e se la parola ha un significato dispregiativo, ad esempio la parola “terrone” che per tanto tempo ha designato chi veniva dal Sud, si produce un fenomeno di rigetto. E’ la lingua il veicolo di questo rigetto che viene assunto sia da chi accoglie che da chi è accolto. “Terrone” è stata a lungo la parola tinta di disprezzo che definiva i nostri migranti.
Un disprezzo spesso legato al modo in cui era impiegata la lingua da parte dei cosiddetti terroni: i dialetti o gli accenti del Sud, le parole italiane mal pronunciate o storpiate producevano immediatamente il fenomeno di rigetto. Un fenomeno che ha a che fare innanzitutto col fatto di dover preservare la purezza della lingua, l’italiano nel nostro caso, che prima era la lingua parlata correntemente solo dalle persone colte. Ma non solo. Preservare la purezza della lingua significa anche non spartire i privilegi di appartenenza che essa veicola. Chi è all’interno del cerchio vuole che l’altro, l’estraneo resti in uno statuto di extraterritorialità.
Per la migrazione interna di prima generazione l’italiano costituiva una lingua d’adozione in cui si doveva trovare posto e accoglienza, ma era la lingua del Padrone, cioè quella che decideva su quali valori fondarsi e quali erano le regole della convivenza e dello scambio.
Avrete notato che gli immigrati - parola il cui uso é considerato politicamente scorretto proprio perché ha veicolato il rigetto di cui dicevo- di seconda generazione che vivono nelle grandi città del Nord, anche se hanno trascorso la prima infanzia al Sud, solo fino a qualche decennio fa, cercavano di mimetizzare l’accento; si sforzavano di parlare un italiano senza inflessioni che non rivelasse le loro radici, che non li tradisse. Solo di recente la televisione ha rispolverato l’uso dei dialetti a fini comico-satirici, in quanto lingue in cui la censura è meno attiva. E’ sempre la televisione che ha reso ormai il napoletano, una vera lingua, ricca di metafore, di giochi di parole, di proverbi e di aforismi, di una tradizione scritta, una sorta di lingua nazionale.
In Italia abbiamo quindi ampia esperienza del tipo di frustrazione che subisce il giovane migrante che cerchi di farsi riconoscere in un’altra cultura.
Per i migranti attuali il fenomeno è ovviamente accentuato dalla radicalità della differenza linguistica, culturale e religiosa. Col risultato che essi non possono farsi riconoscere nella propria identità, compresa quella sessuata, nella cultura d’adozione:ad esempio hanno difficoltà ad intrecciare relazioni sessuali con le donne perché non possono far valere le referenze culturali del proprio paese d’origine in cui si inscrive la loro posizione maschile.
Succede così che l’unico modo di risolvere questa impossibilità è il passaggio all’atto, vale a dire prendersi con la violenza ciò che non si può ottenere in altri modi. Come nei casi di violenza sessuale perpetrati dai giovani stranieri o come negli atti di piccola e grande delinquenza.
Charles Melman ricorda che esiste un’altra via d’uscita a questa impossibilità di farsi riconoscere. Malauguratamente la conosciamo bene, si tratta dell’integralismo :
“ C’est à dire cette affirmation exacerbée, violente, de l’identité symbolique, et du meme coup, de l’identité immaginaire et culturelle, mais dans ce qui est un desaveu et un affrontement avec les autres cultures »
Viene rivendicata un’identità simbolica perché non si condivide lo stesso ideale, lo stesso io ideale che é ciò che rende ad esempio sopportabile la rivalità fra amici; l’amicizia non esclude la rivalità ma la rende sopportabile proprio perché si condivide uno stesso ideale.
Si tratta di stabilire qual é l’identità simbolica che ha valore e questo aut-aut produce una rivalità che diventa un corpo a corpo mortale: o tu o io. Questo vale per chi cerca ospitalità in un paese straniero ma anche per chi ospita. Come dimostrano i fatti di cronaca anche chi è a casa propria può adottare modalità violente di reazione alla presenza dello straniero.
Queste modalità violente vanno accentuandosi tanto più quanto più diventa fragile l’identità simbolica del paese di accoglienza.
Meno sono sicuro della stabilità dei miei valori, meno l’ordine simbolico in cui mi inscrivo è costituito e condiviso, tanto più mi sentirò minacciato dall’altro.
Per illustrare con un esempio l’importanza dell’identità simbolica faccio riferimento ad un film-documentario che è stato presentato in ottobre allo Spazio Oberdan di Milano. Il film si chiama “Strawberry fields”, “Campi di fragole”, ed è stato prodotto da una regista israeliana, Osnat Thabelsi, che ama molto i palestinesi. Infatti il film è stato girato nella striscia di Gaza che, come sapete, è completamente chiusa, da cui i contadini palestinesi escono con enormi difficoltà e rischi, che spesso e volentieri é bombardata. Il film è stato girato in quella parte del 2005 ( l’epoca del “disangagement”) in cui c’era stata una sospensione,solo parzialmente rispettata, degli attacchi israeliani.
La striscia di Gaza, una volta ricca di agrumi ( gli israeliani hanno eliminato gli agrumeti), adesso basa buona parte della sua economia agricola sulla coltivazione delle fragole, un frutto mai coltivato prima a Gaza e completamente estraneo alla tradizione alimentare palestinese. Tuttavia la conversione è avvenuta rapidamente e, soprattutto, le fragole sono l’unica merce destinata ai mercati occidentali che abbia un marchio palestinese: “ Coral”. Le altre produzioni, ad esempio quelle dei pomodori ciliegini, avvengono con marchio israeliano. “Coral” è perciò l’unico significante “esportato” nel mondo occidentale che rappresenti la Palestina.
Il film mette in rilievo non tanto la guerra, che pure rumoreggia sullo sfondo, ma la centralità della questione identitaria per una popolazione spogliata dei diritti più elementari, che passa attraverso un frutto che, per chi lo coltiva, è esotico, non racchiude nessuna storia, nessuna tradizione. Nelle prime battute del film un contadino dice scherzando che la prima volta che aveva visto le fragole le aveva scambiate per una variante dei pomodori.
L’ultima sequenza mostra le piantagioni di fragole, un frutto delicato e deperibile, che necessita di molte cure, distrutte dalla prima ripresa delle ostilità.
La vicenda narrata da Strawberry fields mi sembra esemplare della ricerca di identità in una modernità che non fa che distruggere le identità, tanto più quelle fragili e fittizie affidate ad un marchio di fragole. Al tempo stesso mostra quanto sia vitale e fondante un’identità simbolica per una formazione sociale e per i soggetti che la abitano. Vitale al punto di essere fabbricata artificialmente, come se simbolizzasse una consuetudine ed una tradizione.
Ancora un’osservazione sulla questione identitaria. Lo spunto é la puntata del 21 ottobre della trasmissione “ Prima pagina” condotta da Bruno Vespa su Rai Uno che riprendeva la polemica scoppiata in seguito allo scontro in Tv tra la deputata di AN Daniela Santanchè e l’Imam di Segrate. Poiché la deputata aveva negato che nel Corano si affermasse l’obbligo del velo per le donne, l’Imam l’aveva definita “infedele” e, secondo l’interpretazione di un giornalista, questa definizione corrispondeva ad una condanna a morte.
E’ un caso in cui l’integralismo fa il gioco della destra, che è esattamente ciò che è risultato evidente nel corso della trasmissione. L’Imam, incalzato e fondamentalmente umiliato dal conduttore e dagli ospiti, ha risposto in maniera ambigua riformulando in parte le sue affermazioni mentre la posizione integralista veniva ripresa da una giovane donna musulmana, ospite della trasmissione, che affermava di sentirsi “protetta” dal velo. Non è un caso che spesso siano proprio le giovani donne a sostenere il diritto di portarlo.
Si tratta di una protezione simbolica che si appoggia ad una Scrittura considerata sacra dunque indiscutibile. E questo era il nodo della discussione: da un parte si affermava che le Scritture sacre costituiscono un testo soggetto a diverse interpretazioni; dall’altro che sono invece espressione della verità divina e quindi che la loro lettura è univoca, e non c’è che accoglierla, anche se prescrive la lapidazione per adulterio, come sosteneva la ragazza.
E’ un esempio di integralismo, il pericolo a cui si riferiva Melman, reattivo ad una cultura del paese di accoglienza che vacilla nelle sue referenze centrali. Per gli integralisti la Scrittura non parla più per metafore, non è plurisenso. Ha un solo registro che comanda il soggetto; reale e simbolico collassano come nel caso Schreber, come nel caso del giovane uomo cui ho accennato la volta scorsa.
.
Riprendiamo ora il concetto di identità sotto un’angolazione diversa.
Ho cercato di illustrare nella prima lezione come si possono intendere le quattro componenti dell’identità ( RSI più il sintomo) proposte da Charles Melman. Spero di aver mostrato l’attualità del concetto di identità simbolica così come si impone alla nostra attenzione a causa dei fenomeni migratori e anche quanto sia pericoloso misconoscerne l’importanza.
Vediamo ora che cosa possiamo intendere per “identità”, un concetto che non è proprio della psicanalisi. In psicanalisi parleremmo piuttosto di identificazione, vale a dire di un processo soggettivo inconscio. Questo processo, ha notato Hiltenbrand nel corso delle recenti giornate di studio di Grenoble (11-12 novembre 2006). suppone un’articolazione con la funzione Nome del Padre. Se quest’articolazione funziona non è necessario ingaggiarsi in una ricerca d’identità.
Non è il nostro caso, cioè non è il caso della nostra epoca ed è per questo, potremmo dire, che gli psicanalisti sono interessati a questo concetto.
Un concetto, peraltro, nient’affatto stabile ma che va pensato come oggetto di una ricerca in fieri. Jean-Paul Hiltenbrand sottolinea che i seminari di Lacan sono attraversati da questa ricerca che non cessa di interrogare il concetto di identità. E propone un doppio registro per esplorarlo, quello della mutazione storica più recente che propone di datare dal ’68, oppure quello di prendere in considerazione la clinica.
Che si tratti di scacchi professionali, di scacchi affettivi ( ad esempio un divorzio), di alcuni tipi di episodi traumatici o di conflitto acuto, è in questione l’identità, la rivendicazione da parte del soggetto della propria identità. Penso al divorzio come l’esempio più lampante in cui la fine di un certo tipo di alienazione ( di coppia, amorosa) produce un’esigenza di distanziamento dall’ex partner, spesso radicale, che gli avvocati matrimonialisti conoscono bene. Si rifiuta qualsiasi forma di condivisione col partner, talvolta gli stessi figli.
Ci sono anche altre manifestazioni cliniche in cui siamo di fronte ad una perdita d’identità ancora più radicale, forme di spossessamento che riguardano l’essere del soggetto, che non sono perdite, che non sono assimilabili alla frustrazione per la perdita di un oggetto amato e neppure al lutto, che non riguardano l’avere. Hiltenbrand sostiene che hanno invece a che fare con qualcosa che viene percepito come “un insulto ontologico” dice
Credo che questa affermazione possa essere comprensibile se facciamo ricorso, ancora una volta, ad un film, un vecchio film recentemente riproposto in TV: “Papillon”, tratto da un omonimo romanzo e scritto dallo stesso protagonista, un condannato all’ergastolo della Cayenna da cui era riuscito a fuggire. Rinchiuso in una cella angusta, senza copertura, solo sbarre come soffitto, illuminata anche di notte e sorvegliata dall’alto, il cibo introdotto da una feritoia pieno di disgustosi animali morti e il programma, dichiarato all’arrivo dai carcerieri, di produrre una perdita dell’essere dei prigionieri, cioè di fiaccare qualsiasi appiglio identitario. Operazione simile a quella compiuta nei campi di concentramento nazisti.
Questo tipo di annullamento della soggettività non può essere assimilato ad una perdita narcisistica, ad un insulto all’io, ma piuttosto ad un’abolizione dell’essere. Oggi ci sono mezzi apparentemente meno violenti per produrre quest’effetto, più ambigui e sottili ma certo efficaci. Penso alle tante forme di
( tossico) dipendenza, e soprattutto a quelle medianiche a cui siamo esposti.
Possiamo definire la ricerca di identità come una domanda di riconoscimento rivolta al piccolo altro. In questo senso ha a che fare col desiderio del soggetto ma nel senso che costituisce un ostacolo al suo riconoscimento. Se il registro della domanda prevale su quello del desiderio la soggettività che vi è legata ne risulta impedita. Ed è perciò che nella nostra modernità siamo di fronte ad un fenomeno sociale che si presenta come ricerca di identità.
Possiamo indagarlo a partire dalla clinica e allora la sua origine va ricercata
1) nello scacco della identificazione primitiva,
2) nello scacco della funzione Nome del Padre nel senso che in quel posto, in quella posizione, niente risponde. Non si tratta di forclusione, sottolinea Hiltenbrand, ma di una mancanza di risposta.
E’ questa mancanza di risposta che fa rimbalzare la domanda al piccolo altro, al simile, producendo un effetto di dipendenza immaginaria che potremmo definire un effetto di femminilizzazione.
L’Altro non è più garante della nostra identità simbolica.
Quando Melman parla delle quattro componenti dell’identità assegna all’identità delle proprietà simili a quelle dell’oggetto a nel nodo borromeo. Ora è appunto questo che è in questione, sembra suggerire Hiltenbrand. Possiamo ancora pensare l’identità annodata in questo nodo? Possiamo ancora pensare i tre registri annodati al sintomo per pensare questo concetto? Oppure dobbiamo constatare di essere di fronte ad una mutazione antropologica che ha effetti sul piano strutturale? Vale a dire che viene a mancare l’assetto indispensabile ad un soggetto per potersi collocare.
Questo non può essere considerato separatamente dall’evoluzione delle democrazie occidentali che hanno fondato la propria identità collettiva sull’idea di stato-nazione, sulla religione e sulla ragione, pilastri traballanti dell’identità dello stato moderno.
Hiltenbrand ne individua gli attentatori nella pressione liberale che viene dal sociale e obbliga lo stato a diventare gestionario della società civile e dei diritti privati, cioè ad imboccare una china utilitaristica, ad occuparsi di problemi futili e parcellizzati. Sarebbe questo a dare il via libera all’avanzata della tecnoscienza. Egli vede ad esempio anche nell’abolizione del servizio militare un indebolimento dell’identità collettiva perché non c’è più identificazione con la difesa dello Stato. Insomma non si può più parlare di “sommo bene” ( o, come diremmo oggi, di “bene pubblico”) come fattore di identificazione collettiva. Anche la dimensione del “politico” va perduta perché il politico si riduce al “gestionario”.
Potremmo dire che il “dibattito” infinito blocca ogni decisionalità e, paradossalmente, inibisce la libertà politica perché il politico non fa più da cornice . Oggi anche il singolo cittadino può chiedere, se è insoddisfatto, di modificare una legge dello Stato. In Italia l’effetto destabilizzatore della politica berlusconiana costituisce un esempio lampante degli effetti di questo eccesso di libertà individuale. La deriva individualista, che pure ha preso l’avvio dai movimenti politici degli anni ’70, non faceva parte del sistema di valori in cui quei movimenti sono nati e neanche ne costituiva l’obiettivo, che invece era piuttosto, e forse ingenuamente, comunitario.
Posted by Direzione at 12.12.06 02:41