Il REALE E IL SACRO

Autore: Marianne Amiel-Dal’Bo
Anno: 2023

Proporrò una riflessione sul rapporto fra due concetti: il Reale e il Sacro. Ai margini di questi due concetti, l’evidente costatazione che il mondo contemporaneo è caratterizzato dall’invasione di schermi e di gadget, nelle cui reti il linguaggio e la parola non riescono più a trovare una presa.

Gli effetti deleteri prodotti dal flusso di parole gettate sugli schermi sono visibili. La parola ha perso il suo valore e i suoi referenti. In questo circuito, al di fuori del linguaggio e senza freni, nel quale si confondono mittenti e destinatari, non siamo più in grado di riconoscere la parte che ci sfugge, la parte che va oltre noi stessi. In tutta coscienza “noi ci andiamo”, “siamo spinti a farlo” “accettiamo di lasciarci andare”.

In primo luogo, ci possiamo chiedere se le pulsioni, sollecitate dal flusso luminoso del circuito digitale, trasgrediscano le leggi dello scambio – come per esempio il tempo necessario per cogliere le sfumature che esistono tra un enunciato e la portata dell’enunciazione? In questo precipitarsi, come si può mantenere l’equilibrio sociale e individuale? Questo dimostra fino a che punto dare libero sfogo alle pulsioni significa ignorare le differenze, aprendo la strada alla violenza nelle azioni e nelle parole.

Partendo da questo “buco” comune che promuove eccitazione, che promette risposte alle domande, nel quale nessuna distinzione è possibile tra un “sì” e un “no”, tra un uomo e una donna, il messaggio si riduce al fenomeni di “s-m-s”, “sé-medesimo-sé”, a una forma di looping, che si conclude e si fissa nell’inconscio sotto l’imperativo: “il loop!”. Reale e Sacro ecco qui due campi ingombranti e destabilizzanti per quanto riguarda la traiettoria di accesso e giubilo.

Viceversa, ciò che è sacro si presenta subito come inaccessibile: “vietato entrare!”; “vietato toccare!”; “vietato guardare!”. Rappresenta quel luogo che, per timore, sublima la cosa, ne trattiene le tentazioni, per esportarle verso una forma di linguaggio attraverso dei simboli, da intendersi come veri e propri contrattempi, come frammenti di linguaggio che s’interpongono tra le spinte del campo pulsionale, “vedi, tocca, prendine, assaggiane”, e la cosa nascosta, aggirata, irraggiungibile, quella stessa che ci rimanda all’oggetto del desiderio. Il sacro ci costringe ad andare oltre ciò che la tentazione ci spinge a trasgredire o addirittura a completare.

Ma il “sacro”, molto più di una parola, è soprattutto un luogo riservato al vuoto, a partire dal quale sono state finemente dispiegate e ordinate le fondamenta delle civiltà. Questo luogo a parte, separato, ha spinto l’uomo nel linguaggio, simbolizzazione necessaria di ciò che non può o non deve raggiungere. Ciò mostra in che misura la parte sacra inauguri un arretramento, si realizzi a cominciare dalla sottrazione di una tentazione legata al vivente. Quest’atto sarà reso sacro da un gesto, un dono, ed è sulla base di tale sacrificio che si orienta una città e s’inscrive per sempre in una temporalità e in una spazialità. In un certo senso, un asse o un significato si sprigiona da una parte da cui l’uomo si è separato. Sentiamo quanto oggi seguiamo il percorso opposto, ad esempio attraverso l’uso ormai evidente dell’affermazione: “Perché privarsene quando possiamo averne accesso?”.

Nelle grotte preistoriche il luogo sacro aveva già il proprio posto, era quel “fuori dal mondo” delle forme terrestri attorno alle quali gli uomini potevano raccogliersi. La tacca incisa sulla parete alla soglia dell’ingresso rivela quanto la dimensione umana sia sostenuta da una certa astrazione, d’un fuori senso che possiamo vedere in questo tratto come il segno di un radicamento e un accantonamento di qualcosa che proviene dal corpo. Un sacrificio che vale da punto d’ingresso nella condizione umana.

Benché sia “intoccabile”, il sacro riguarda ciò che tocca qualcosa di molto vicino al soggetto, una parte che gli è intimamente legata e che tuttavia rimane proibita. È questa frazione non rivelata e non rivelabile che potremmo collocare nella traiettoria del nastro di Möbius del parlessere. In effetti, nulla della Cosa può localizzarsi. Non ragiona in termini di un fuori opposto a un dentro, ma lascia al parlessere un vuoto in cui la forma del suo parlare prende origine.

In una cura, il paziente a volte porta un’emozione che brucia nel corpo, assumendo in un certo senso una dimensione sacra nella misura in cui si presenta come inaccessibile, indivisibile, intoccabile. Ciò che è sacro tocca ovviamente il sessuale, quella cosa proibita che tuttavia mi brucia. Non si tocca nemmeno all’ortografia del nome, la Madre che mi ha nutrito, la Terra che mi ha accolto. In una cura, la Cosa che sta al cuore del paziente rimane spesso ai margini. Potremmo dire che è sacralizzata nel luogo stesso della parola. Al contempo, è la Cosa che organizza, o addirittura sanziona, il discorso del paziente e lo esalta verso la ricerca di senso. Lacan direbbe « là jouit sens » che si può intendere sia come il “godimento sente” sia come “ode il senso”.

In ogni infanzia c’è quel tempo consacrato, sacro, che si trova in relazione agli oggetti, “la propria camera” che possiamo intendere come la parte fuori senso che rimane incolmabile, separata dei genitori, irraggiungibile. Effettivamente non attraversiamo la “porta” di un Tempio così facilmente! Il Tempio non è forse una metafora dell’Altro, il terzo da cui emana il transfert, che custodisce nel profondo di una minuscola cella quel qualcosa di sacro che illumina, accende e affascina? Nell’antichità, la dea della Verità non era forse rappresentata da una fiamma? Mostra anche come la verità e il desiderio siano legati. In questo gioco di lettere, sentiamo anche l’equivoco che trasforma la fiamma in femmina (in francese de la flamme à femme). Non è forse attraverso l’operazione della metafora che un significante prende forma, segnando così un sacrificio e quindi anche un luogo sacralizzato? Nel momento dell’intaglio, la tacca, un “io” attraversa la Porta e s’invita a entrare come effetto di un taglio, l’effetto “fuori portata” dell’inconscio.

Oggi l’incontro con il linguaggio e la richiesta all’Altro si rivela anche una “sacra” prova, una prova non indifferente, che può assumere l’aspetto di un sacrificio: sacrificare il proprio essere parlando. Questa prima faglia, che a volte è vissuta come un’amputazione, rende evidente il buco o il vuoto da cui la parola è possibile. In questo modo, possiamo dire che è il linguaggio, e non le pulsioni, a liberare il soggetto dalla sua carne, da ciò che subisce non potendo raggiungere se stesso attraverso il suo essere, che solo morendo può chiudersi. Questa cosa sacra brucia dunque nel punto in cui l’es si ostina a non entrare nel linguaggio, a non incontrare la faglia da cui emana una fiamma, lo spazio dell’alterità.

In un’analisi c’è spesso, dopo un tempo di elaborazione e di messa in posizione della parola, l’emergenza di un divario, individuabile attraverso il ritmo del parlato, come quello dello spazio tra le frasi, parole che si succedono meno veloci. Questo tempo è l’esperienza dell’incontro con l’inaccessibile, come una verticale che emerge dall’impossibile. La cosa sacra muta così in un certo silenzio o vuoto che richiede l’aiuto del linguaggio (metafora o metonimia), che costringe il soggetto a dirne di più. Questo tempo simbolico ci separa o piuttosto presiede al posizionamento di una barra sull’apertura infinita e beante che la cosa sacra secerne? È questa la prova di una cura, che condensa in una linea rudimentale ciò che è più vicino al vivente e allo stesso tempo più vicino alla morte del soggetto.

Il divieto o l’interdetto dell’incesto sarebbe allora una metafora o una metonimia di questo intaglio, avvierebbe il decentramento del soggetto rispetto a un’impossibile unità o centralità immobilizzata dalla traccia del sacro?

È a questo punto del mio discorso, in cui il Reale e il Sacro s’incontrano su una barra, senza mai potersi unire, che emerge un parlessere. L’analisi conduce così il soggetto verso il desiderio dopo aver esportato la cosa sacra nel circuito dei significanti, in quello che potremmo definire un decentramento della cosa. Laddove il sacro si nutre di significato, il desiderio invece è “fuori dal significato”, nel senso che si confronta con un Reale in quanto, o in un certo senso, è un sintomo, in cui introduce il “ça ne vas pas” dell’analisi. Si tratterebbe allora di una conversione dal Sacro al Reale? Una desacralizzazione? Parleremmo forse se non ci fosse, in agguato nell’ombra, la traccia di un impossibile, quello stesso impossibile che è legato in modo complesso ma non privo di amore, al tempo stesso al Sacro e al Reale?

Per una donna, che nessun significante può circoscrivere, il Reale le è vicino, ed è questo che le conferisce un rapporto speciale con il Sacro. Vi trova il cerchio immaginario e al tempo stesso simbolico, il bordo di un’unità perduta o impossibile, un vuoto che il gesto circolare ingrandisce, lo spazio in cui l’essere (la lettera) non cessa di non potersi inscrivere. Una donna può perdersi in questo vuoto, che rivela un’apertura all’essere, se il significante lettera non può fare da metafora per il parlessere.

Concludendo questa prima riflessione, direi che oggi, volgendo le spalle al linguaggio, volgiamo le spalle ai luoghi che gli sono legati, senza i quali l’uomo non può diventare qualcuno. La corsa fin troppo evidente al godimento individuale e muto di oggi produce anche dei non luoghi, come vediamo proliferare nelle città che abbiamo davanti, come scatole da abitare, scatole vuote giustapposte in un ambiente assente. Non è forse solo da questo legame complesso e inconsapevole tra il Reale e il Sacro che può nascere il desiderio di parlare, un luogo in cui si può costituire una metafora, la metafora dell’incontro tra un uomo e una donna, per esempio, su cui può trovare fondamento l’impossibile rapporto con la cosa che crea tanta sofferenza e deriva?

Marianne Amiel-Dal’Bo

 

(Traduzione dal francese a cura di Pierfrancesco Del Re)

 

 

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